| SOLE NERO
                        
                       Sms ai lettori italiani
                        
                       Introduzione
                        
                       (2013)
                        
                        
                        
                       
                         
                       
                         
                        
                        
                       Ventisei anni dopo
                        la prima edizione francese di Soleil
                          noir. Dépression et mélancolie (Gallimard, Paris 1987), il mio amico e editore Carmine Donzelli mi chiede
                        se ho qualcosa da aggiungere. Io lo ringrazio, e senza deprimermi mi interrogo.
  
                       
                         
                       Per la verità, non
                        avevo mai chiuso questo libro. I miei pazienti di oggi hanno una bella voglia
                        di essere iperconnessi dai vari smartphone e skype: il web non impedisce il suicidio; può
                        capitare al contrario che lo incoraggi. La logica della loro depressione segue
                        le stesse figure alle prese con un «passato che non passa», con una «lingua
                        morta», o con una «Cosa sepolta viva». I disturbi bipolari
                        sono più che mai alla moda, e la bellezza resta immancabilmente l'altra faccia
                        del depresso. Il matrimonio per tutti e le famiglie ricomposte stanno
                        diventando la norma, ma l'amore incorpora sempre il dolore, e la psicoanalisi
                        rimane il solo spazio che la modernità riserva alla sofferenza per ottenere
                        quella forma lucida del perdono che è l'interpretazione. Le conferenze che ho
                        tenuto in Europa, in America o in Asia, le traduzioni in numerose lingue, mi
                        persuadono dell'attualità persistente di questo «sole nero», e io continuo ad affinare la spiegazione che ne propongo a coloro che ne sono
                        scottati. Cosa posso aggiungere ancora, e per di più
                        all'indirizzo del lettore italiano, della lettrice italiana?
  
                       
                         
                       Non è dunque senza «paura e tremore» che affido oggi al mare questa
                        bottiglia.
                        
                       
                         
                       Essendo cambiato,
                        rispetto a un quarto di secolo fa, il ritmo della comunicazione, provo ad arrischiare,
                        in questa introduzione, una con-trazione, una sorta di sms al tempo stesso
                        denso e serrato, che la lettura del libro permetterà - spero - di distendere e
                        sviluppare.
                        
                       
                         
                       Sì, la depressione
                        e la malinconia sono più che mai le compagne della globalizzazione. Il Prozac,
                        l'Anafranil o il Seroxat hanno invaso l’armadietto dei medicinali di ogni famiglia, e gli antidepressivi
                        sono in grado di regolare efficacemente il flusso nervoso. Tuttavia, con o senza
                        di essi, la vita e la morte della parola si giocano
                        nella caverna senso-riale dei traumi infantili, ed è il transfert sul terapeuta
                        dell'odio indici-bile e dell'eccitazione innominabile che fa rinascere il
                        suicida o la suicida: dentro nuovi legami, per realtà da reinventare.
  
                       
                         
                       Sì, la sindrome
                        depressiva non è più soltanto un malessere personale. Le nazioni stesse oggi
                        sono depresse, sotto lo choc della crisi en-demica e dell'inevitabile
                        austerità. L'Europa stessa è minacciata in prima persona da un malinconico
                        pensionamento, con relativa perdita di identità, di
                        valori e di fierezza. Avevo scritto Contre la dépression nationale (Textuel, Paris 1998), analizzando la Francia tentata - già
                        allora - dal Fronte nazionale e gettata nel panico dall'ondata degli immigrati. Nation Without Nationalism, suona così la traduzione inglese di un mio lavoro precedente (Columbia University Press, New York 1993). Siamo ancora, e più che
                        mai, a quello stesso punto: perché l'identità è il nostro anti-depressivo sociopolitico, ma perché non si traduca in una fonte di
                        regressioni identitarie, di fronte allo stallo economico-politico dell'Europa
                        che ci lascia impotenti, non abbiamo che una sola arma: la cultura. Riguardiamo
                        il Cristo morto di Holbein, rileggiamo El Desdichado di Gerard de Nerval, il carnevale dei Demoni in Dostoevskij, la Malattia della morte secondo Duras... E
                        parliamone: esiste una cultura europea. Cos'è? Ieri, oggi, domani?
  
                       
                         
                       No, io non sono né
                        depressa né depressiva. Certi lettori me lo chiedono, e approfitto
                        dell'occasione per rispondere. Ho visto la tempesta passarmi vicinissima, e
                        l'ho vista sconfitta dalla persistenza del pensiero, che mia madre (cui ho reso
                        omaggio nel mio La testa senza il corpo, Donzelli, Roma
                        2010) considerava come il mezzo migliore per spostarsi: da un luogo, da sé, da
                        tutto... Più tardi ho voluto fare compagnia alla sofferenza dei malati all'Hôpital de la Salpetrière a
                        Parigi, ma anche immergermi nelle «idee», di cui Marcel Proust scrive che sono
                        «i succedanei dei dolori». Non sono lontana dal pensare, con Aristotele e Heidegger, che la malinconia è coestensiva all'inquietudine
                        dell'uomo nell'Essere.
  
                       
                         
                       E poi ho esplorato
                        il genio femminile. E ho aggiunto l'erotismo della reliance materna (cfr. il mio Pulsions du temps, Fayard, Paris 2013); e
                        oggi penso, con Colette, che «rinascere non è mai
                        superiore alle nostre forze». Può darsi che sia più facile a dirsi che a farsi,
                        se siete una donna che ha analizzato le sue ferite e i suoi limiti, i suoi
                        bisogni di credere e i suoi desideri di sapere. E preferisco di
                          gran lunga l’éclosion della natura, degli altri e di sé, piuttosto che compiangersi nel mal-être -
                        alla faccia della «tribù malinconica dei filosofi», di cui rideva Hannah Arendt.
  
                       
                         
                       «La malinconia non
                        è francese», mi avevano detto all'epoca dei critici che pensavano a Rabelais, a
                        Sade, alla Rivoluzione, e nascondevano le loro lacrime, degne al massimo di
                        brume tedesche o nordiche. E italiana, la malinconia? Sì o no? Amo il blu di
                        Giotto, la Santa Teresa di Bernini, le estasi del Tiepolo, la voce di Cecilia Bartoli... Il mondo intero viene
                        da voi a fare il turista per dimenticare la propria miseria e per divertirsi; e
                        la barocca Venezia non fu essa stessa eretta come culto della malinconia?
                        L'Italia dunque come negazione delle realtà dolorose? O piuttosto come scrigno
                        globalizzato della depressione nazionale, in mancanza di alternativa,
                        in assenza di avvenire? Oppure - chissà - in anticipo sul désêtre mondiale, e pronta ad
                        analizzare, a rivoltarsi, a rinascere?
  
                       
                         
                       Mi piacerebbe che
                        quelli che leggeranno questo libro potessero ritrovarvisi.
                        Non propongo soluzioni. Per la prima volta nella storia, dopo tante guerre,
                        tanti crimini, tante speranze più o meno rivoluzionarie
                        o paradisiache, stiamo capendo che i problemi essenziali non sono «solubili». Ma che ciascuno, ciascuna, può aprire la cicatrice o la
                        piaga delle sue pene, per metterle in questione e cominciare a spiegar-le. Il
                        mio augurio è che voi possiate farlo, leggendo queste traversate di «soli neri» che io ho cercato di accompagnare nelle pagine
                        che seguono. E che possiate chiudere questo libro, avendo conquistato qualche
                        lampo, per innescare delle nuove possibilità da dischiudere.
  
                       
                         
                       Julia Kristeva
                        
                       
                         
                       Parigi, 30 giugno
                        2013
                        
                        
                        
                       
                         
                        
                        
                       
                         
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